Hibakujumoku_ gli alberi che insegnano a rinascere

Pubblicato il 15 novembre 2025 alle ore 16:09

Cari gentili lettori, 

quello di oggi è un articolo speciale, con ospiti altrettanto speciali che, anni fa, hanno conquistato una parte importante del mio cuore e non se ne sono più andati. Che ci crediate o meno, sono rimasti compagni fidati delle mie giornate storte, insegnandomi sempre come trovare il coraggio di rinascere, anche quando fa male. 

In questo, bisogna riconoscerlo, hanno un talento incredibile. Come fosse una specie di superpotere in grado di ispirare anche molte altre persone. Sono famosi, in effetti. Pensateci, pensate ai vostri momenti peggiori, a quando vi siete stati persi, stanchi, a quando vi siete sentiti crollare il mondo addosso. Non avreste voluto una parola, un consiglio da qualcuno che ci era passato attraverso, a tutto quel dolore? 

Un albero può fare tutto questo? Mi chiederete voi, con un comprensibilissimo scetticismo negli occhi.

Ebbene, vi presento gli Hibakujumoku. 

Per fare la loro conoscenza, però, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, riavvolgere gli anni per approdare in Giappone, in uno dei momenti più bui della storia dell’umanità. E’ il 6 agosto del 1945. La città di Hiroshima si sta svegliando, ignara che di lì a poco l'aeronautica militare statunitense si sarebbe presa il diritto di sentenziare la morte di più di 150.000 civili. 

E’ una distruzione che non si può descrivere. 

A 900 metri dall’ipocentro il terreno raggiunge una temperatura di oltre 4000 °C. E’ impensabile immaginarvi della vita residua. Eppure, contro ogni logica, contro ogni minima aspettativa, nella primavera del 1946 proprio in quei territori spettrali compaiono le prime foglie. E’ ufficiale: il mondo verde comincia a rivendicare il proprio posto sventolando una bandiera di rinascita sulla morte. A sfregio di chi ha pensato di poter essere un Dio. 

I giapponesi li chiamano Hibakujumoku ovvero “reduci”, “alberi che hanno subito un'esplosione atomica” e ne hanno un profondo rispetto. Li riconoscete subito passeggiando per la città, non solo perché sono dotati di targhetta identificativa, ma, soprattutto, perché la gente si inchina passando, li abbraccia, gli manda un gesto d’affetto, come se fossero degli anziani che vegliano sulla comunità. 

Incontrerete, così, un ginko a 1130 metri dall’ipocentro, un albero della canfora a 1120 metri, una peonia a 890 metri e… un salice piangente a soli 370 metri dall’ipocentro. 

Pensateci: 370 metri dal punto esatto in cui è esplosa una bomba atomica. Quel salice ha subito uno stress inimmaginabile per radiazioni e temperatura, è stato spazzato via, completamente distrutto, eccetto per una parte delle sue radici. 

Eppure oggi è ancora lì.

Ma com’è possibile che gli Hibakjumoku siano qui a testimoniarci quanta forza c’è nella rinascita?

Questo accade perché gli alberi sono organismi modulari. A differenza degli animali che sono dotati di un unico centro di comando, le piante si compongono di più unità, ciascuna indipendente. Perciò, nel momento in cui subiscono un’aggressione che ne danneggia la struttura, la parte non compromessa conserva comunque la facoltà di continuare a crescere. Allo stesso modo, a Hiroshima, il terreno deve aver agito da scudo, schermando sufficientemente una porzione delle loro radici da consentirne la sopravvivenza. 

Facendo di loro gli Hibakujumoku. 

Sapete, gentili lettori, ci ho pensato spesso, nel corso degli anni, a come a distanza di più di 7 decadi continuino a infondere speranza in un mondo ipocrita, in cui vige una scala di valori spesso rovesciata.  

E, a volte, ci troviamo con la nostra vita impacchettata da qualche parte, senza sapere bene da dove ripartire. Ebbene, possiamo sempre ripartire da qui. Dalla consapevolezza che nelle nostre radici c’è forza sufficiente per un altro germoglio.






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